Le origini
L’infanzia e l’adolescenza
Emilio Giuseppe Ernesto Colombo nasce a Potenza l’11 aprile 1920 da Angelo e Rosa Tordela. Quarto di sette figli, tre maschi e quattro femmine, fu sempre residente in città; il padre Angelo, di Reggio Calabria, sposò la madre, Rosa Silvia Elvira Tordela, il 30 ottobre del 1910.
Per alcuni anni i genitori dovettero tenere residenza anagrafica separata: il padre, per ragioni di lavoro, fu residente a Reggio Calabria fino all’11 aprile del 1927, data del definitivo trasferimento a Potenza, ove fu impiegato presso la Camera di Commercio; la madre, di origini avellinesi, fu invece sempre residente, con i figli, nel capoluogo lucano, sua città natale.
Gli spostamenti tra Potenza e Reggio Calabria dovettero essere probabilmente temporanei e circoscritti a brevi soggiorni trascorsi nel capoluogo calabrese dove il padre risiedeva per ragioni di lavoro
La mia vita, dall’infanzia all’età avanzata, è sempre stata accompagnata da due grandi panorami: da una parte i vasti orizzonti dell’Appennino lucano (ai cui piedi nasce Potenza) con i suoi fiumi, il Basento, il Bradano e l’Agri, digradanti verso Metaponto; dall’altra la visione di ciò che intravedevo dalla baracca in via Reggio Campi, a Reggio Calabria. Mio padre, infatti, era nativo di Reggio Calabria, ed essendo scampato al terremoto del 1908, aveva avuto in assegnazione un container nel quale, nei primi anni della mia vita, vissi con la mia famiglia. In quegli anni avevo davanti a me lo stretto di Messina e il mio sguardo si allungava su Scilla e Cariddi.
L’azione cattolica e l’antifascismo
Nel 1935 fondò a Potenza la prima associazione studentesca di Azione cattolica. Nel 1937 fu presidente di Azione cattolica della Diocesi di Potenza e componente del Consiglio nazionale della Gioventù italiana di Azione cattolica; conseguì la maturità classica presso il Liceo «Quinto Orazio Flacco» di Potenza.
Grazie all’Azione cattolica viaggiavo molto: andavo (…) in tutti quei paesi per coordinare la Gioventù cattolica che, all’epoca, era una delle più grandi organizzazioni di cattolici presenti in Italia, distinta da quelle del fascismo, alle quali eravamo comunque obbligati a partecipare.
Il mio primo maestro fu monsignor Vincenzo D’Elia, parroco della SS. Trinità di Potenza (la mia parrocchia), nato a Brienza, un piccolo paese vicino al capoluogo. Monsignor D’Elia aveva compiuto i suoi studi in un seminario romano assieme a Pio XII e a tanti sacerdoti che poi sarebbero diventati personaggi di grande statura nella gerarchia ecclesiastica. Era un uomo rigoroso, parco di parole e largo di esempi, con una formazione sia religiosa sia sociale. Era stato il riferimento lucano di don Luigi Sturzo quando questi aveva fondato, prima dell’avvento del fascismo, il Partito popolare. Pur nella necessaria riservatezza di quel periodo, traspariva, dai suoi comportamenti, non solo l’attenzione alla formazione religiosa, ma anche alla società e alla patria.
L’università e il servizio militare
A ventun anni, nel 1941, si laureò in Giurisprudenza all’università di Roma (con una tesi in diritto ecclesiastico), orientandosi inizialmente verso la carriera accademica; si iscrisse, infatti, al Pontificium Institutum Utriusque Iuris, con l’intento di specializzarsi in diritto canonico. Furono, quelli romani, gli anni della frequentazione di cenacoli culturali di tutto rilievo: a casa di don Giuseppe De Luca (lucano, fondatore e animatore delle «Edizioni di storia e letteratura» e dell’«Archivio italiano per la storia della pietà»), ebbe modo di frequentare, tra gli altri, ospiti del calibro di Prezzolini, Gentile, Papini, Ungaretti, Bo, Cardarelli, Palazzeschi.
Fu chiamato alle armi (prima di frequentare il corso per allievi ufficiali di complemento) il 1° agosto 1942 e destinato al «Deposito 39° Fanteria, per il successivo avviamento al 32° Battaglione d’Istruzione in Nocera Inferiore per frequentarvi il 4° Corso preparatorio di addestramento».
Proseguii nel mio impegno anche a Roma, dove giunsi per intraprendere gli studi universitari. Alloggiavo presso alcuni miei carissimi zii in via Capodistria, una traversa di via Nomentana.
Il primo impegno politico
La fine della guerra
Nel 1943, dopo l’armistizio, rientrò in Basilicata, dando inizio al suo impegno politico nell’ottica di una ricostruzione da fondare sulle basi dell’antifascismo e dei principi cattolici e democratici. Dal 1944 al marzo 1947 fu segretario generale della Gioventù italiana di Azione cattolica.
Al mio rientro in Basilicata (…) mi accorsi che ci si aspettava che al mio rientro, avendo militato per anni nell’Azione cattolica, potessi assumere un ruolo dirigenziale nell’ambito della Democrazia cristiana, il partito dei cattolici italiani che si stava costituendo. Nei giorni seguenti constatai quanto fosse giusta la mia intuizione. Rimasi indeciso per molto tempo, ma poi preferii non dedicarmi ad alcuna attività politica, pur sapendo che, nella nuova realtà che si stava aprendo dopo la caduta del fascismo, fosse necessario impegnarsi.
Alla Costituente
Il 2 giugno 1946, Emilio Colombo fu eletto all’Assemblea Costituente per la circoscrizione Potenza-Matera, ricoprendo poi il ruolo di componente e segretario della «Quarta commissione per l’esame dei disegni di legge».
Nel 1947 fu nominato vice presidente del Bureau Internazionale des Enfants (Organizzazione internazionale dei movimenti educativi). | Dati elettorali |
Io fui il capolista «di fatto» della Dc, pur non avendo ancora compiuto ventisei anni (…). Feci un’intensa campagna elettorale, con sei o sette comizi al giorno, in tutta la regione. Alla fine fui primo eletto nella lista della Democrazia cristiana lucana, avvicinandomi, per numero di preferenze a quelle prese da Nitti: la mia, in fondo, era una voce nuova, che meglio interpretava il desiderio di rinnovamento dei lucani e di una nuova classe dirigente.
Con circa 21.000 voti di preferenza mi ritrovai deputato alla Costituente; avevo compiuto ventisei anni l’11 aprile 1946, durante la campagna elettorale, giusto in tempo per potermi candidare.
Mi occupai dunque della legittimazione, della funzione e dei limiti della proprietà, delle sue ricadute sulla collettività, riassunti nella «concezione sociale» di quel diritto. La redazione degli articoli non fu legata a una visione astratta delle norme, ma fu finalizzata alla preparazione di quello che sarebbe avvenuto in seguito, ovvero l’attuazione della riforma agraria.
La prima Legislatura repubblicana
Il 18 aprile del 1948 fu eletto alla Camera dei Deputati per la Circoscrizione Potenza-Matera. | Dati elettorali |
Dal 1948 al 1951 fu nominato sottosegretario al Ministero dell’Agricoltura e foreste (Governi V e VI De Gasperi); in quella veste si occupò di condurre a buon esito la mediazione a Melissa, in Calabria, nel 1949, durante gli scontri per le occupazioni delle terre. Collaborò con Antonio Segni e Alcide De Gasperi al varo delle leggi per la Riforma agraria.
Noi c’eravamo – e ci fummo – nella lotta che portò la Dc alla maggioranza assoluta nel 1948. Attraverso quella mobilitazione si giunse al voto del 18 aprile; l’ottenimento della maggioranza da parte della Dc fu possibile per il sostegno di gran parte del mondo cattolico (…). La maggioranza del mondo cattolico, dunque, aveva votato per la Dc, manifestando approvazione per l’intesa con i partiti laici (Pri, Pli, Psli) che avrebbe dato vita al Governo De Gasperi della prima legislatura repubblicana14: fu così che prese avvio, in Italia, una democrazia solidamente fondata sui partiti e caratterizzata da una politica riformatrice.
Accadde che nella zona di Melissa vi fu un’occupazione di molte terre incolte; negli scontri con la polizia vi furono alcune vittime. Io fui allora mandato lì dal Consiglio dei ministri per cercare di riportare l’ordine. Dopo una lunga trattativa, l’accordo fu fatto (…) consentendo di ricondurre nell’alveo della legalità l’esigenza legittima dei contadini di avere le terre da lavorare.
La riforma agraria avrebbe dovuto eliminare il latifondo, una piaga dal punto di vista sociale ed economico; avrebbe dovuto elevare a dignità di proprietari quei poveri braccianti impiegati per sole ottanta-cento giornate lavorative all’anno e per di più mal pagate (…).
Mi dedicai alla riforma agraria, ma naturalmente fu Segni l’elemento coagulante di tutte le forze riformatrici.
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Nel 1950 accompagnò De Gasperi nel celebre viaggio a Matera, dal quale prese il via la legge per il risanamento dei Sassi, varata nel 1952.
Nella fase di intensa attività svolta in quegli anni come deputato della Basilicata, ci fu una questione a cui tenni molto: la legge (da me redatta) per il risanamento dei Sassi di Matera e per la creazione di nuove case da destinare agli abitanti di quella zona. (…)
In occasione della prima visita di De Gasperi in Basilicata [luglio 1950], lo avevo accompagnato nel viaggio da Roma a Metaponto e a Matera, preparandolo all’incontro con quella realtà: giunti a Matera, prima del suo discorso ai veterani nella piazza feci inserire una visita ai Sassi. Ne visitammo uno e osservò le condizioni di vita di coloro che lo abitavano. Poi, uscendo, si voltò verso di me e disse: «Figlio mio! Che hai fatto a portarmi qua. Adesso che andrò in piazza dopo aver visto tutto questo che cosa dirò alla popolazione?». Gli risposi: «dirà, se potrà, che il governo si impegnerà per eliminare quella che era stata definita da Togliatti la ‘vergogna nazionale’». Andati al palazzo della Prefettura, lo vidi prendere degli appunti con la matita rossa e la matita blu, dividendo i vari argomenti: il suo intento era quello di impegnarsi, ma non di annunciare l’emanazione di una legge apposita.
Ritengo che la legge di Matera, fatta sotto l’impulso di De Gasperi, sia stata una delle operazioni più importanti della mia vita politica; aggiungo che il giorno in cui De Gasperi compì settant’anni, mentre pensavo a che cosa potessi regalargli, mi fece sapere che avrebbe desiderato ricevere, la mattina del compimento del settantesimo anno d’età, il testo definitivo della legge per i Sassi di Matera.
Sindaco della città di Potenza
A seguito delle elezioni comunali del maggio 1952, la Democrazia cristiana si affermò sulle altre liste con circa il 32% dei consensi. Emilio Colombo risultò il più votato, con 7.479 preferenze. Il Consiglio comunale, riunito dopo le elezioni il 14 giugno 1952, elesse Emilio Colombo alla carica di sindaco con 25 voti su 38. Seguito nella carica al commissario Zotta, rimase in carica alla guida della città per soli sei mesi, fino a dicembre, quando optò, a causa dell’incompatibilità tra cariche, per il seggio di Montecitorio (primo eletto, nella Circoscrizione Potenza-Matera, nelle Politiche del 7 giugno 1953).
Nei mesi di sindacatura si impegnò nel varo di alcune importanti opere, facendo sì che il Consiglio comunale deliberasse la costruzione di edifici scolastici, acquedotti, case popolari, linee elettriche per le zone rurali. Affrontò anche il tema del risanamento delle finanze comunali, prevedendo una revisione a rialzo di alcune imposte e tariffe, e l’implementazione del servizio di nettezza urbana nelle periferie.
Furono deliberate, negli stessi mesi, la ricostruzione del Rione Libertà e l’allargamento di «Piazza 18 agosto», attraverso la costruzione della terrazza belvedere.
(…) fui indotto a presentarmi alle amministrative come candidato sindaco di Potenza, uscendone eletto. Feci un’esperienza che fu per me tra le più importanti della mia vita, in quanto mi diede una maggiore consapevolezza di quanto l’amministrazione dovesse stare vicina ai cittadini, per comprenderne i bisogni, favorire il contatto tra amministratori e amministrati e far progredire la vita di una comunità. Vi furono però dei problemi: la legge non consentiva di essere sindaci di una città con un numero di abitanti superiore a 30.000 e, contemporaneamente, parlamentari. In quella condizione ci trovammo io e Giorgio La Pira, allora sindaco di Firenze e parlamentare rieletto: La Pira rinunciò a essere parlamentare e io a essere sindaco. Fu così che continuai a fare il deputato per la Basilicata.
Un protagonista delle istituzioni politiche repubblicane
Il V Congresso DC di Napoli
Dal 1953 al 1955 fu sottosegretario al Ministero dei Lavori pubblici (Governi VIII De Gasperi, Pella, I Fanfani, Scelba). Nel 1954 prese parte al V Congresso della Democrazia cristiana, celebrato dal 26 al 29 giugno a Napoli, intervenendo con un celebre discorso che gli sarebbe valso il terzo posto nelle votazioni finali dopo De Gasperi e Scelba.
Quel periodo fu politicamente rilevante perché era stato centrale, nell’ambito della Dc (ancora sotto l’ala protettrice di De Gasperi), il Congresso tenutosi a Napoli, dal quale sarebbe dovuta emergere una nuova generazione, composta da tutti quei giovani che avevano assunto posizioni di responsabilità nell’ambito del partito e che, in fondo, costituivano il nucleo centrale della classe dirigente dell’avvenire. (…)
Il Congresso si svolse al Teatro San Carlo di Napoli e il tema centrale fu quello del futuro (…): la Dc aveva perduto voti rispetto a quelli del ’48: perché? Fu questo il tema che affrontai nel mio discorso di Napoli, elaborato a partire da uno schema che avevo preparato nelle settimane precedenti. Il mio giudizio verteva sul fatto che, nonostante avessimo affrontato i grandi temi del Paese e avessimo espresso in modo esplicito la capacità e la volontà riformatrice della Dc e dei governi democratici (…) vi era stato un calo di voti riconducibile alla contraddizione tra l’azione riformatrice del governo e le posizioni politiche di partito. (…)
Che le mie tesi fossero state recepite e ben accolte apparve dalla votazione: infatti, pur essendoci in lista persone più esperte e valide di me (come, per esempio, Vanoni, Segni, Moro e lo stesso Fanfani, candidato alla segreteria del partito), ebbi un numero di voti che mi portò ad essere il terzo della lista. Primo fu De Gasperi, secondo Scelba, terzo Colombo, quarto Fanfani e poi, a seguire, gli altri.
Ministro dell’Agricoltura e foreste
Dal 1955 al 1958 fu ministro dell’Agricoltura e foreste (Governi I Segni e Zoli, in cui fu anche Alto commissario per l’alimentazione). Furono quelli anche gli anni del primo impegno europeista di Colombo.
A metà anni Cinquanta, nel corso dei negoziati che portarono alla nascita della Comunità economica europea, in qualità di ministro dell’Agricoltura seguii quelli relativi alle tematiche di mia competenza. (…)
La firma dei trattati [25 marzo 1957] fu importantissima per l’Europa e per i nuovi equilibri internazionali che si stavano costituendo: il valore del documento istitutivo della Cee fu squisitamente politico, perché attraverso esso si tentava di tenere stretta all’Europa la Germania dell’Ovest, quando l’altra parte, invece, era sotto l’influenza dell’Unione Sovietica. (…)
Fanfani, oltre alla presidenza del Consiglio dei ministri, aveva trattenuto per sé la segreteria del partito e aveva assunto anche l’interim del Ministero degli Esteri, il che significava un accentramento che, pur nelle mani di un uomo dalle capacità e dallo spirito organizzativo di Fanfani, era un po’ eccessivo. Fu per questo che finì gradualmente per delegarmi a partecipare sia alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio, sia a seguire l’attuazione dei trattati di Roma. Quello sancì l’inizio del mio impegno nella Comunità europea, con l’assunzione di responsabilità sempre maggiori che mi portarono a seguire a Roma, poi a Bruxelles e talvolta a Strasburgo, l’attività preparatoria dei negoziati per l’applicazione dei trattati. (…)
Eravamo un gruppo di persone che sentiva fortemente l’esigenza di mandare avanti i trattati, di attuarli, di dare anche senso politico alle norme di natura economica in essi contenute.
Alla guida dell’Industria e commercio, tra rilancio del Mezzogiorno e questioni energetiche
Dal 1959 al 1963 Colombo fu ministro dell’Industria e commercio (Governi II Segni, Tambroni, III e IV Fanfani). In quegli anni si consolidò in lui la visione volta ad assicurare, nelle scelte compiute, l’armonizzazione tra questioni sociali ed esigenze legate al mercato e alle logiche del profitto: fu quella che, nelle letture di Colombo, sarebbe tornata più volte con i termini di «economia sociale di mercato». In quella scia si collocò innanzitutto la Legge per le piccole e medie industrie (n. 623 del 30 luglio 1959), con la quale furono concessi incentivi a favore delle medie e piccole industrie dell’artigianato.
Gli anni Sessanta, inoltre, lo videro impegnato in un piano organico di industrializzazione nel Mezzogiorno, il quale avrebbe dovuto mettere a sistema risorse e investimenti. Fu colta l’occasione delle scoperte dei giacimenti di petrolio a Gela e di metano a Pisticci per avviare un vasto piano di sviluppo con l’ENI di Enrico Mattei in Val Basento (per le industrie chimiche a Ferrandina e Pisticci); contestualmente furono avviati gli investimenti a Brindisi con la Montecatini, ma anche a Pomigliano D’Arco con l’Alfa Romeo e a Termoli con lo Stabilimento Fiat.
Fu nel 1962, invece, che giunse a compimento il piano di nazionalizzazione dell’energia elettrica, con la nascita dell’ENEL. Contestualmente, procedette alla fondazione del Comitato per l’energia nucleare e dei Centri di ricerca di Frascati e Ispra, in provincia di Varese.
Per me è davvero meraviglioso il ricordo di quel periodo, di quando, per raggiungere Bruxelles e partecipare alle sedute degli organi comunitari, mi fermavo negli aeroporti della stessa Bruxelles o delle altre città europee come Milano, Parigi o Berlino. Mi capitava molto spesso di sentir parlare i dialetti delle varie zone d’Italia (anche di quelle meridionali); si trattava di persone che sull’onda del miracolo economico avevano costituito piccole e medie industrie o che avevano innovato quelle già esistenti.
Costoro andavano in giro per i mercati internazionali con i loro dialetti, facendosi aiutare dagli interpreti ed esportando nel mondo, con i dialetti, anche i prodotti italiani.
Il tema dell’industrializzazione del Sud fu affrontato non soltanto con leggi di facilitazione, ma anche con la promozione, nei limiti del possibile, di attività industriali. (…) Nel frattempo Enrico Mattei, dopo aver sviluppato un’intensa attività nel campo dell’energia nel Nord del Paese, dove era stato ritrovato il metano (che si sarebbe rivelato un importante volano del processo di industrializzazione), aveva dato inizio a nuove ricerche in altre parti d’Italia, giungendo a due fortunati ritrovamenti, di cui uno di petrolio a Gela, in Sicilia. Da subito si stabilì che l’obiettivo non sarebbe potuto essere solo quello di estrarre il petrolio per portarlo al Nord, ma che sarebbe stato necessario anche utilizzarlo per la creazione dell’industria chimica. (…)
L’altro ritrovamento avvenne in Basilicata, nella Valle del Basento, ove le esplorazioni fortunate fatte dall’Eni portarono a scoprire un grosso giacimento di metano. Allora, raggiunsi un accordo con l’Ente nazionale idrocarburi, e in modo particolare con Mattei, affinché il 50% del metano disponibile fosse immesso in circuiti nazionali e l’altro 50% utilizzato per la creazione di un’industria chimica nella zona. Nacquero così alcune iniziative industriali, tra cui lo stabilimento Anic di Pisticci e la Liquichimica a Ferrandina, realizzata dalla Ceramica Pozzi ma che inizialmente sarebbe dovuta nascere per iniziativa del gruppo industriale Montecatini. Queste trasformazioni furono importanti, perché resero la Valle del Basento una zona industriale. Purtroppo, quando i giacimenti si esaurirono, l’industria chimica ebbe una stasi, dovuta anche alla competizione delle più convenienti produzioni coreane.
In quel periodo si pose un secondo grande problema, quello del costo dell’energia nel Sud. (…) Al Ministero dell’Industria, pertanto, assunsi l’iniziativa di unificare le tariffe elettriche. (…) La politica dell’energia si rivolse in seguito verso la nazionalizzazione: fui io, da ministro dell’Industria, a dover studiare e approfondire la tematica, per scrivere, con l’aiuto di tecnici e giuristi, la relativa legge.
Ministro del Tesoro
Dal 1963 al 1970 fu ministro del Tesoro (Governi I Leone, I-II-III Moro, II Leone, con interim al Bilancio e programmazione economica, I-II-III Rumor); in quegli anni operò a stretto contatto con l’allora governatore della Banca d’Italia, Guido Carli.
Come ministro del Tesoro, nel 1963, durante la presidenza italiana del Fondo monetario internazionale, incontrò il presidente Kennedy.
La sua politica fiscale fu caratterizzata da stretto rigore, scelta che non lo mise a riparo da dure polemiche, anche interne alla DC, circa i possibili risvolti politici e sociali di un tale orientamento. Il controllo dei conti pubblici, in vista del contenimento dell’inflazione, gli valsero tuttavia il riconoscimento dell’«Oscar della lira» nel 1965.
Da ministro del Tesoro dovetti concludere che la mia responsabilità, al di là di qualsiasi obiettivo di carattere programmatico e politico, fosse quella di bloccare il problema della spinta inflativa [poiché] l’inflazione a due cifre era la più ingiusta delle tasse, perché colpiva i più poveri e, in modo particolare, coloro che avevano un reddito fisso. (…) Ero ministro del Tesoro di un difficile governo monocolore e mi si diceva di non denunciare e di non esprimere le mie grosse preoccupazioni per l’inflazione, perché l’idea di una politica restrittiva avrebbe potuto rendere difficile l’esperimento di un nuovo Governo Moro con la partecipazione dei socialisti. Mi trovai in un momento di grossa difficoltà e cominciai allora a intrattenere una collaborazione con il governatore della Banca d’Italia, Guido Carli. (…) Fummo noi due ad assumere la responsabilità di contrastare il fenomeno dell’inflazione, in una fase in cui, con l’avvento dei socialisti al governo, l’opinione pubblica era convinta che l’esecutivo avesse dovuto procedere alla ridistribuzione della ricchezza, a piani di investimento di grandissima portata e a un aumento delle pensioni e degli stipendi. (…) Noi, invece, dovevamo realizzare, convincendo gli altri, una politica di contenimento. Queste scelte furono alla base di alcune difficoltà nella definizione del Governo Moro che si sarebbe dovuto formare nell’autunno del 1963.
(…)
Adottammo una linea mista, con misure monetarie e fiscali: queste ultime, in particolare, furono assunte in termini sia di prelievo, sia di riduzione della spesa pubblica. Si proseguì con una politica monetaria restrittiva e prevedemmo anche l’aumento del bollo auto, scelta che fece molto scalpore.
Nel 1963 spettò all’Italia la presidenza del Fondo monetario internazionale. Andai a Washington nel mese di settembre ed ebbi il compito di dare la parola al presidente Kennedy che, a sua volta, era venuto per portare un saluto ed esprimere le proprie opinioni.
Nel 1965, intanto, ricevemmo l’«Oscar della lira»: il lavoro compiuto da Carli e da me per stabilizzare la nostra economia (e garantire una «crescita nella stabilità»), per favorire gli investimenti esteri in Italia ed evitare, cosa dannosa per la bilancia dei pagamenti, l’esportazione dei capitali, ebbe esito nell’assegnazione dell’ambito riconoscimento. Si trattava, in realtà, del secondo Oscar: il primo lo avevamo ricevuto nel 1960, quando era ancora governatore Menichella.
L’Oscar fece molto piacere sia a me, sia al governatore Carli, perché costituì il riconoscimento ufficiale per le politiche messe in atto fino a quel punto, le quali avevano consentito il superamento di una congiuntura pericolosa per l’economia italiana e l’avvio verso una fase di normalità.
L’Europa e il contesto internazionale
Da ministro del Tesoro, seguì le politiche europee nel corso degli anni Sessanta. Le sue qualità di mediazione lo portarono a tessere la rete di relazioni tra l’Europa e alcuni paesi africani, giungendo nel 1964, dopo due anni di lavoro, alla firma della Convenzione di Yaoundé.
Nel 1965, invece, fu mediatore tra la Francia e la Comunità europea per la risoluzione della crisi della «sedia vuota», ricomposta un anno dopo grazie alla sottoscrizione del «Compromesso di Lussemburgo» (30 gennaio 1966).
(…) in applicazione della «Dichiarazione Schuman» del 9 maggio 1950, della quale nessuno parla mai e da cui scaturirono le prime organizzazioni comunitarie (…), De Gasperi, Schuman e Eisenhower avevano parlato di Europa unita come di una federazione che avrebbe dovuto tener conto anche del rapporto tra Europa e Africa. Ebbe così inizio una trattativa per associare all’Europa quegli stati africani, un tempo colonie europee, che avevano acquistato l’indipendenza (…). L’obiettivo volto alla realizzazione di un’associazione tra Stati europei e africani, per favorire lo sviluppo di quei Paesi e il loro inserimento in meccanismi decisionali autonomi, dette luogo al trattato di Yaoundé. Fui io, in qualità di presidente di turno della Comunità europea, a negoziarlo, assistito sempre dal ministro degli Esteri francese, Couve de Murville, poiché la Francia, su questi temi, era da sempre particolarmente interessata. Fu un grande successo europeo, che comunque mise un punto fermo nel trattato tra Europa e Africa, nonostante successivamente non sarebbe stato adeguatamente sviluppato.
(…) sul piano europeo fu rilevante portare avanti le prime e più importanti politiche comuni: quella commerciale e quella agricola. (…) Ma la gestione comunitaria che si era venuta affermando, e che in fondo si presentava allora con un ritmo molto intenso, creò qualche problema politico. (…) la Francia, a politica economica comune definita, mentre si pensava di andare ulteriormente avanti, creò un problema. De Gaulle riteneva che gli organi comunitari avessero eccessiva incidenza sulla politica europea e criticava molto il protagonismo della Comunità (che allora aveva un presidente molto efficiente, il tedesco Hallstein). Egli era preoccupato soprattutto del fatto che, nell’applicazione dei trattati, sarebbe potuta scattare la norma del voto a maggioranza, poiché si sarebbe voluto far cessare il principio dell’unanimità. La preoccupazione francese era che l’introduzione di questa nuova modalità di voto avrebbe potuto modificare la Politica agricola comune, rispetto alla quale noi avevamo previsto tre anni di sperimentazione.
(…) Nel corso di una seduta estiva, la delegazione francese proclamò la «crisi della sedia vuota», dichiarando il ritiro della Francia dal Consiglio europeo. Essendosi consumato lo scontro proprio durante il periodo di presidenza italiana, toccò a me dovermene occupare: il primo atto di ripresa dei contatti avvenne curiosamente a Washington, dove ci trovammo tutti i ministri dei sei Paesi. (…) Il momento di passaggio effettivo, invece, avvenne a Roma in occasione della chiusura del Concilio Vaticano II (…); Couve de Murville e io ci scorgemmo e ci scambiammo dei messaggi per incontrarci riservatamente al Ministero del Tesoro, in via XX Settembre, cosa che facemmo immediatamente dopo la fine della funzione. Fu nella sala «Quintino Sella», intorno alla scrivania, che ci scambiammo qualche idea sul modo in cui si sarebbe potuta risolvere quella crisi. (…) Permanendo la regola del voto maggioritario, pensammo che qualora uno dei Paesi avesse considerato quel voto particolarmente importante per se stesso, gli altri avrebbero dovuto concedergli il «non voto», ovvero l’opzione di sospendere qualsiasi votazione, in modo da andare avanti nel negoziato fino al raggiungimento di un’intesa.(…)
L’incontro decisivo sarebbe avvenuto in Lussemburgo [il 30 gennaio 1966].
Le politiche di spesa e il dibattito sui diritti
Nel 1967, durante il Governo Moro III (23 febbraio 1966-24 giugno 1968), il tema dell’aumento delle pensioni, sollevato dai sindacati, fu oggetto di un lungo dibattito che coinvolse le forze di Governo. Alle insistenze dei socialisti, Colombo, all’epoca ministro del Tesoro, si oppose temendo un’impennata dell’inflazione.
Una riforma delle pensioni significativa sarebbe stata, poi, varata da lì a qualche anno con la l. 30 aprile 1969, n.153 con la quale, tra le altre cose, per il calcolo della pensione, il sistema retributivo sarebbe subentrato a quello contributivo e sarebbe stata istituita la pensione sociale.
Un giorno, quando le insistenze si fecero particolarmente forti, alla presenza di Nenni e Moro (quest’ultimo, in particolare, aveva sempre rispettato la regola per la quale il presidente del Consiglio solidarizza con il ministro del Tesoro), dissi: «Vi prego, ritenete che sia necessario un aumento di questa portata? Ritengo che in questo momento sia incongruo ed esagerato. Possiamo fare una cosa: fatelo da voi e non coinvolgete me!». Era come dire che me ne sarei andato e che avrebbero potuto nominare un altro ministro del Tesoro per fare la riforma.
Ero veramente sincero facendo quell’affermazione, perché volevo che la politica antinflazionistica fosse mantenuta: in caso di soddisfacimento di esigenze obiettive, oppure di investimenti, sarei stato meno prudente. Di fronte a questa mia affermazione, ripetuta due o tre volte, a un certo momento Nenni, che di solito era molto paziente e di carattere gioviale (lo ricordo, infatti, con molta simpatia e con molto rispetto), disse: «E va bene, vattene!». Allora mi alzai, aprii la porta, salutai tutti, andai via e scomparvi dalla circolazione. Naturalmente l’avvenimento, appena si ebbe la sensazione che si stesse profilando una crisi determinata da più di un contrasto con il ministro del Tesoro, cominciò ad avere una grossa ripercussione, soprattutto negli ambienti finanziari dove avevo assunto la funzione di tutore della stabilità monetaria, dell’equilibrio e dello sviluppo. Non mi feci trovare per ventiquattro ore, fino a quando mi raggiunse una lettera paterna di Nenni: lui era più anziano di me e avevamo un rapporto di simpatia reciproca. Nel messaggio diceva: «Non avrei mai pensato che questo avrebbe portato alla sostituzione del ministro del Tesoro, torna al tuo tavolo di lavoro!». Fu così che la crisi si chiuse.
Alla Presidenza del Consiglio dei Ministri
I fatti di Reggio Calabria
Nel 1970, la decisione di assegnare alla città di Catanzaro la funzione di capoluogo di regione innescò moti di piazza a Reggio Calabria. La rivolta durò da luglio 1970 a febbraio 1971 e fu caratterizzata da un ricorso costante alla violenza con uso di armi e di esplosivo. Il gruppo promotore, inizialmente, fu contraddistinto da una sostanziale eterogeneità: in esso vi erano esponenti locali della Dc, dell’associazionismo cattolico e popolare, dei partiti laici di governo, dei sindacati (Cisl e Uil) e della Chiesa. Anche il Pci reggino assunse verso i moti un atteggiamento non sempre lineare, avvicinandosi alla protesta, seppure per un brevissimo periodo, nell’ottobre del 1970. Ad assumere, però, una funzione nevralgica nell’organizzazione dei moti furono comitati civici egemonizzati dalla destra. In sede giudiziaria è stato poi denunciato il contributo delle mafie all’organizzazione degli atti terroristici, nei quali vi fu un uso massiccio del tritolo, come nel caso del deragliamento, del 22 luglio 1970, della Freccia del Sud, che provocò sei morti e settanta feriti.
La preoccupazione mia, del governo e del ministro dell’Interno riguardava il fatto che ci eravamo resi conto che stava montando anche un’offensiva della destra. Da un esame più particolareggiato emerse che dietro alla cosiddetta «rivolta di Reggio», gironzolasse il principe Borghese. Quindi, alla questione apparentemente semplice della scelta del capoluogo, andava ricollegato il più ampio movimento di destra che, chiaramente percepito, non fu enfatizzato ma combattuto. La scelta di impiegare i carri armati non fu dettata dalla necessità di esercitare il controllo dell’ordine a Reggio città, ma fu presa per far fronte agli attacchi alle Ferrovie dello Stato: in uno di quegli attentati, infatti, vi erano stati diversi morti. Gli attentati alla linea ferroviaria furono posti in essere con l’impiego di ordigni che crearono difficoltà al traffico. Allora decisi, d’accordo con il ministro della Difesa, di mandare le forze militari a presidio di tutta la linea ferrata, per evitare che si verificassero incidenti gravi.
La rivolta, tuttavia, non si sedava. Furono registrati incidenti a Reggio Calabria e anche qualche morto a Catanzaro. Fu allora che detti luogo a un’azione politica per fermare questa spirale di violenza che preoccupava tutta Italia. Ritenevo, infatti, che non fosse sul piano del contrasto a quei tentativi di violenza che si potesse giungere alla risoluzione del problema: bisognava trovare un’intesa politica tra le forze in campo.
Aprii un tavolo, prima con i partiti di governo, poi con quelli dell’opposizione, per valutare le strategie per risolvere il problema. Difatti, dopo diversi scambi di vedute, almeno nella maggioranza trovammo un punto d’intesa che lasciai in sospeso, senza formalizzazione, per estendere il colloquio anche ai partiti di opposizione e, quindi, avere anche il loro appoggio. La discussione si aprì con il Pci, il quale diede il proprio assenso. L’unica forza politica di cui non potetti avere l’adesione fu il Movimento sociale italiano, allora guidato da Almirante, partito che si collocava dietro le forze di opposizione che, oltre alle componenti di carattere politico annoverava anche lobby economiche. Non mi risulta, ma non potrei escluderlo, che vi fossero già delle prime forme di criminalità organizzata, benché non apparissero in modo evidente. Almirante era una persona molto intelligente, che aveva dato un grande impulso all’azione del Msi, soprattutto sfruttando la preoccupazione che suscitava nel Paese l’ampliamento della maggioranza verso sinistra (con la partecipazione piena del Partito socialista) e utilizzando il ritornello degli «equilibri più avanzati» che, seppure con una presa di posizione politica e il rinvio a un tempo più opportuno, era predicato da De Martino, allora vicepresidente del Consiglio dei ministri, nei discorsi politici domenicali.
Il Piano Colombo
La risposta del Governo Colombo alla rivolta di Reggio Calabria non fu solo di tipo militare, ma anche e soprattutto di tipo politico ed economico. La consapevolezza che dietro l’adesione di massa alle proteste vi fossero problematiche di tipo sociale e occupazionale spinse il Governo a varare un nuovo piano di sviluppo della Calabria, attento ad assegnare a ciascuna provincia un ruolo strategico e a industrializzarne alcune aree.
A quel punto, si pose il grosso problema dell’industrializzazione, ovvero quello relativo alla realizzazione del quinto polo siderurgico. Il tema, che vedeva la Finsider capofila, non era stato posto per risolvere un problema di carattere regionale, ma perché era necessario, in quel momento, alla siderurgia nazionale; l’idea di collocare il polo siderurgico nel Mezzogiorno era scaturita da un rapporto che il professor Saraceno (noto a tutti per la dedizione ai problemi economici, per l’attitudine a ideare e porre in modo organico i problemi dello sviluppo e per la fedeltà all’idea di Mezzogiorno) aveva predisposto per l’Iri.
Il problema dell’industrializzazione, però, valutato per le finalità occupazionali, non si risolveva solo con quel provvedimento. Vi furono altre iniziative, legate alla localizzazione della piccola industria, per le quali ottenemmo la collaborazione dell’Iri e di qualche industria privata. Al tavolo della trattativa, offrì i propri investimenti in Calabria, la Liquichimica di Ursini, disposta a realizzare uno stabilimento di prodotti chimici. Fu deciso che, fatte salve le valutazioni tecniche, quella sarebbe stata un’altra realizzazione che avrebbe contribuito allo sviluppo della Calabria. Su questa base si potette realizzare l’accordo che finalmente tranquillizzò la regione. Questo piano sarebbe passato alla storia locale e nazionale sotto il nome di «piano Colombo».
L’inaugurazione dello stabilimento di Pomigliano d’Arco
L’inaugurazione dello stabilimento dell’Alfasud di Pomigliano d’Arco si tenne il 30 ottobre 1971. Nel corso della cerimonia – e in particolare durante il discorso inaugurale tenuto da Colombo -vi furono imponenti contestazioni dovute, in primo luogo, al piano assunzioni, ridimensionato di circa cinquemila unità. Al momento dell’apertura dell’industria, infatti, gli occupati furono circa settemila a fronte dei circa dodicimila previsti.
Sulle prime partirono lunghi fischi e ululati dal fondo della sala che mi costrinsero a fermarmi; ripresi a parlare e ripartirono i fischi. Al terzo tentativo, presi i fogli del discorso che mi avevano preparato, li misi da parte, sul tavolo, e dissi: «Questo è il discorso che mi avevano preparato perché pensavano che quella di oggi sarebbe stata una manifestazione tranquilla. Ma voi avete contestato e state ancora contestando. Ora dovete ascoltarmi». Calò il silenzio nella sala. Dissi: «Voi accusate il governo perché nell’impianto di Pomigliano, in questo momento, a fronte dei dodicimila operai previsti, solo settemila sono stati assunti. Protestate perché gli altri sono ancora fuori. Ma di chi è la colpa? La colpa è vostra e io vengo a dirvelo con la stessa chiarezza con cui voi state contestando, perché voi siete stati gli autori degli scioperi “a singhiozzo” (erano quelli i tempi delle contestazioni in Italia) che hanno ritardato il completamento della fabbrica. Pertanto, dovrebbero essere i cinquemila operai che sono fuori dalla fabbrica a fischiare noi, non voi a fischiare me. Voi vi lamentate perché non sono state costruite le case per ospitare gli operai che abitano nelle zone circostanti e dovrebbero venire ad abitare a Pomigliano: a prescindere dal fatto che non tutto può essere realizzato con la velocità dei nostri desideri, mi domando come mai anche questo non sia avvenuto. La risposta sta nel fatto che ‘la regola’ di questo stabilimento è stata la contestazione, la quale si è manifestata con gli scioperi a singhiozzo». Detto tutto questo con grande vigore, nella sala si fece silenzio, condizione che mi permise di concludere il mio discorso. Devo ricordare, a onor del vero e a riprova della sincerità dei sentimenti di quegli operai, oltre che dell’ingenuità della loro contestazione, che al termine della cerimonia vennero sotto il palco, mi presero sulle spalle e mi portarono a visitare lo stabilimento.
Il golpe borghese
Il «Golpe Borghese», noto anche come «Golpe dei forestali», attuato nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970, rientra tra gli episodi più controversi e oscuri della storia d’Italia. Colombo ne offre un’inedita lettura.
Fui informato, inoltre, direttamente dal ministro Restivo, del tentativo di golpe da parte di Borghese: mi diede alcune carte dalle quali risultava che vi fosse un progetto di colpo di Stato. Mi ricordo che venne di sera tardi, accompagnato dal suo sottosegretario Adolfo Sarti. Mi chiese: «Cosa facciamo?». Gli risposi: «Lasciami queste carte in modo che me le possa leggere questa notte: domani mattina ci vediamo e traiamo le conclusioni». Lessi le carte e vidi questi «disegnini» su alcuni fogli un po’ pasticciati. Erano indicate le sedi della Rai, del Quirinale e delle Forze Armate, con qualche freccia qui e là. Vidi questi ed altri fogli. Mi parvero disegnini fatti da ragazzi e così li giudicai.
Il giorno dopo chiamai Restivo e gli dissi che, stando a ciò che avevo visto, quel cosiddetto progetto mi lasciava «un senso di umorismo» per come le cose venivano presentate, benché avessimo il dovere di consegnare quelle carte alla Magistratura, di modo che potesse fare subito le inchieste necessarie e darci un resoconto che ci consentisse di adottare i provvedimenti necessari. La Magistratura procedette con l’inchiesta.
Al Parlamento europeo
Da parlamentare a presidente del Parlamento europeo
Emilio Colombo fu eletto presidente del Parlamento europeo l’8 marzo 1977. Sarebbe rimasto in carica per tre mandati, fino al 16 luglio 1979.
Nel 1977, alla scadenza del mandato del presidente del Parlamento, si pose il problema della elezione di quello nuovo. Il presidente in carica era socialista e, secondo prassi, si sarebbe dovuto procedere scegliendo un esponente di diverso orientamento. Ci fu una lotta molto serrata e la Dc decise di candidarmi. Nel 1977, pertanto, fui eletto alla presidenza del Parlamento europeo. Cominciai così una nuova esperienza ricca di contatti, che mi permise di ampliare gli orizzonti della mia attività politica e che vide l’Europa e le sue istituzioni sempre più inserite nel contesto storico di quegli anni.
I rapporti tra l’Unione Europea e i paesi da poco apertisi alle liberal-democrazie
In Spagna e in Portogallo, lungo gli anni Trenta, si erano instaurati governi dittatoriali di destra che scelsero di non prendere parte alla Seconda guerra mondiale. Pertanto, quando essa terminò, nonostante la sconfitta dei fascismi, essi rimasero in piedi. Solo a metà degli anni Settanta i due Paesi si sarebbero avviati verso una transizione democratica.
Quello fu per l’Europa un periodo importantissimo, in quanto era cominciato il declino delle grandi ideologie del XX secolo. In Spagna era caduto il franchismo e, in Portogallo, il Governo Salazar. Si trattava di due grandi Paesi europei (la Spagna più rilevante del Portogallo) che si aprivano alla democrazia. Essi chiesero un primo contatto al Parlamento europeo. Dapprima fui invitato, in quanto presidente, dalle Cortes spagnole a tenere un discorso. Era la prima volta che la Spagna accoglieva le parole di un leader europeo, di un responsabile non spagnolo. In realtà, la transizione della Spagna verso la democrazia era stata concepita durante il periodo precedente, quando con il governo franchista già in crisi avevano avuto inizio movimenti che lasciavano presagire il futuro. In Italia, a quell’epoca, in qualità di dirigente Dc e di ministro del Tesoro, avevo già ricevuto alcuni leader spagnoli che, seppure militanti del franchismo, non aderivano sostanzialmente a esso. Con costoro avevo parlato del «dopo». Da ciò si può capire, quindi, perché io fossi stato invitato con grande insistenza a tenere il primo discorso alle Cortes spagnole riunite. A parte l’emozione per il discorso, fui colpito dalla solennità di quell’Assemblea, che esprimeva l’intenzione della Spagna di aprirsi alla democrazia attraverso l’Europa e le sue istituzioni. In altre parole, essa poneva già sul tavolo la candidatura per essere ammessa tra i membri della Comunità europea, allora costituita prevalentemente dagli stati fondatori.
I rapporti diplomatici con la Cina
Le prime negoziazioni tra Cina e Italia ebbero inizio nel novembre 1970, invece l’ambasciata fu aperta nei primi mesi del 1971. Colombo ebbe un ruolo importante nella tessitura delle relazioni diplomatiche con i cinesi, ostacolate dal governo americano.
Ricordo inoltre un’iniziativa che ebbe per me un particolare significato: predisponemmo una mia visita in Cina in qualità di presidente del Parlamento europeo. Al mio arrivo fui accolto molto bene e il «Quotidiano del Popolo» (la cosa mi impressionò particolarmente) fece una prima pagina dedicata alla mia visita. In questo articolo non era messa tanto in evidenza la mia funzione di presidente del Parlamento europeo, quanto il ruolo da me svolto, quando ero stato presidente del Consiglio, per l’apertura dei rapporti diplomatici con la Cina. All’epoca, quel mio impegno fu piuttosto discusso dagli Usa, i quali, invece, per riservarsi il primato dell’avvio di tali rapporti, tendevano a ritardare simili iniziative da parte di altri Paesi. Nixon, infatti, con la collaborazione di Kissinger, mirava a rallentare in qualche modo tali negoziati nell’attesa di essere pronto a giocare in proprio la partita con la Cina. Per procrastinare l’apertura delle sedi diplomatiche, si ricorreva alla decisione di discuterne all’Onu come «questione importante», assoggettandola così a un vincolo di maggioranza speciale difficilmente raggiungibile.
Fu soprattutto il «Times» a pubblicare un articolo molto violento, nel quale l’Italia fu accusata di aver assunto un atteggiamento poco filoamericano. Qualche giorno più tardi giunse anche una telefonata da parte di Saragat, allora presidente della Repubblica. Premetto che tra me e Saragat vi erano stima, rispetto e affetto reciproci: i rapporti tra noi erano forti e non c’erano mai state differenze sostanziali di vedute. Si lavorava, infatti, perché il governo non entrasse in crisi, soprattutto a ridosso della scadenza del suo mandato e dell’elezione del nuovo presidente.
Saragat mi telefonò alle otto del mattino e mi chiese se avessi visto l’articolo con cui il «Times» criticava il comportamento tenuto il giorno prima dal Consiglio dei ministri. Gli risposi che, sebbene fossi dispiaciuto, non era stato possibile fare diversamente. Lui, allora, ribatté che quelle critiche facevano male al nostro Paese. Fui molto paziente nell’ascoltare, fino a un certo punto, gli appunti di Saragat (dopotutto era mio dovere farlo). La sua critica nei confronti del governo, come avveniva nei rari momenti in cui si lasciava prendere dalle discussioni, divenne un po’ violenta. Allora ribadii che la politica estera l’avrebbe fatta il governo italiano e non il «Times»!
Sentii che dall’altra parte la cornetta si abbassava e la discussione fu interrotta.
Alla guida degli Esteri
Le difficili trattative con il Regno Unito per la politica agricola comunitaria
I rapporti tra Regno Unito e Unione Europea sono stati contraddistinti da importanti frizioni. Nella primavera del 1980, Colombo, ministro degli Affari esteri, si adoperò con successo per il superamento di un momento di impasse dovuto agli scontri in materia di politica agricola, acuiti dall’imponente deficit pubblico inglese. L’accordo raggiunto previde l’iscrizione per due anni, a carico della Comunità europea, del 65% del deficit britannico.
Quando, però, si cominciò a parlare dell’ingresso dell’Inghilterra nella Comunità, uno dei grossi problemi fu proprio quello della politica agricola. L’applicazione del nuovo sistema portava un certo squilibrio nelle finanze inglesi: essendo l’Inghilterra un Paese importatore di prodotti agricoli e con uno export piuttosto ridotto, avrebbe sostenuto costi molto alti. La signora Thatcher, fin dall’ingresso dell’Inghilterra nella Comunità, a causa di questi squilibri finanziari, gridava: «my money!», intendendo richiedere la restituzione dei soldi che perdeva con quella politica agricola.
Il 28 maggio (lo ricordo perché era il mio onomastico) mi recai a Londra. Fui accolto a Downing Street dalla signora Thatcher, che mi diede il benvenuto. Era in abito lungo e io in tight: tutti gli altri partecipanti al pranzo erano in smoking. Erano presenti il ministro degli Esteri Lord Carrington (che era peraltro mio amico, in quanto avevamo seguito insieme alcune iniziative comunitarie di politica estera ed economica), il cancelliere dello Scacchiere, e poi vi erano l’ambasciatore Ruggiero da una parte e l’ambasciatore italiano in Inghilterra dall’altra. Il pranzo era finito con grande cordialità e io avevo davanti la Thatcher, molto disponibile al dialogo, mentre i due ministri erano piuttosto contrari alla trattativa. La cosa mi turbò inizialmente, ma poi capii le dinamiche di quell’atteggiamento. Dovendosi, infatti, fare una transazione nella quale l’Inghilterra avrebbe dovuto cedere una parte delle sue pretese, mentre noi avremmo dovuto accrescere la nostra disponibilità verso le richieste della Thatcher, i due ministri, in realtà, volevano dimostrare che l’uomo del governo britannico non era solo la signora Thatcher (come si diceva allora), ma lo erano anche loro, e lo sottolineavano cercando di affermare gli interessi del loro Paese. Quel «giochetto», secondo me, condotto oltre un certo limite, ebbe come conseguenza il temporaneo fallimento dell’accordo.
La Dichiarazione di Venezia e la questione mediorientale
Il 12 e il 13 giugno del 1980 si tenne, a Venezia, la seduta del Consiglio europeo, nel corso della quale, in merito alla questione mediorientale, fu escogitata la soluzione poi sintetizzata nella celebre frase «due popoli, due Stati». Colombo rivendica il ruolo giocato in quell’occasione dall’Italia e da se stesso.
Gli Stati Uniti non erano pronti ad affrontare e a far accettare agli israeliani un accordo, o anche solo un tentativo d’intesa, con i palestinesi. Noi, però, (la presidenza di turno era italiana), resistemmo alla posizione statunitense e il giorno successivo rendemmo nota la «Dichiarazione di Venezia», che fece molto scalpore e provocò contrasti con gli Usa. Del dissenso americano avevo già avuto sentore quando, da presidente del Parlamento europeo, mi ero recato al Congresso americano e, nel corso della riunione della Commissione per gli affari esteri, avevo esposto la nostra posizione, venendo contrastato da molti poiché quello di Arafat era considerato un movimento terroristico con cui non si potesse avere nessun tipo di rapporto. Ma la «Dichiarazione» dovette avere un grosso impatto: lo stesso Sadat parlò di me come del «padre spirituale della Dichiarazione». Come fece, tra l’altro, lo stesso Couve de Murville, non facile ad apprezzamenti e riconoscimenti, il quale elogiò e apprezzò il documento che faceva sintesi della posizione dei nove Paesi della Cee sul Medio Oriente. Questi giudizi di apprezzamento, in fondo, non erano sbagliati, nonostante si fosse ancora lontani da una possibilità di intesa (a cui, tra l’altro, non si è ancora arrivati). D’altronde, la formula su cui tuttora si basano i tentativi di accordo fra israeliani e palestinesi rimane quella dei «due popoli, due Stati», a dimostrazione dell’importanza della Dichiarazione. Non ho mai dimenticato, però, che Eugenio Scalfari, parlando degli accordi di Venezia, disse che gli italiani si erano limitati a preparare l’accoglienza e i pranzi e che, in fondo, non avevano avuto nessun rilievo politico. Mi dispiacque constatare che talvolta in patria le cose non vengano apprezzate.
Il terremoto del 1980
Il 23 novembre 1980 la Campania centrale e la Basilicata centro-settentrionale furono interessate da un devastante sisma che provocò 2914 decessi, 8848 feriti e circa 280.000 sfollati.
Colombo, ministro degli Affari esteri, impegnato a Roma in un incontro con il primo ministro britannico, Margaret Thatcher, ricorda il rientro precipitoso in Basilicata e l’arrivo nella Balvano devastata dal crollo di una chiesa che aveva provocato un’«ecatombe» di bambini.
Ci volle poco per accorgermi che era avvenuto qualcosa di molto grave, perché il traffico era già congestionato nel tratto Roma-Napoli. Ebbi, poi, un’impressione più chiara e concreta dopo Napoli. Mi fermai al passaggio autostradale prima di Avellino, dove trovai due lucani che erano rimasti senza mezzi: li presi con me in macchina e proseguimmo. La mia prima tappa fu Balvano che, dalle notizie che mi erano giunte, era stato uno dei centri maggiormente colpiti. Lì, infatti, al momento della scossa più forte, era in corso un rito religioso in una chiesa che era stata ricostruita da poco, a cui partecipavano molti bambini. Purtroppo la chiesa era caduta e sotto le macerie c’era stata un’ecatombe di decine e decine di bimbi. Quando arrivai era già notte: non era stato facile percorrere tutta la strada che da Salerno portava dalle parti nostre. Ebbi la sensazione di quello che era accaduto da un’immagine che, rimasta impressa nei miei ricordi, non dimenticherò mai: in uno spazio, all’ingresso di Balvano, vi erano delle donne con il velo nero raccolto sulla testa, insieme ai loro familiari. Molte di esse erano impietrite dal dolore. Erano le madri dei bimbi che erano morti sotto le macerie della chiesa. Fu difficile avere un approccio, una conversazione di qualsiasi tipo, perché il dolore era profondo e c’era il pericolo che qualsiasi conversazione potesse cadere nella banalità. Non era un dolore che potesse essere lenito se non con la compenetrazione, la partecipazione piena che le parole non sarebbero state in grado di esprimere. Attraversai quel tratto di strada e salutai alcuni, ricevendo risposte molto trattenute e riservate: in realtà era gente sopraffatta dal dolore. Mi addentrai allora nella cittadina di Balvano e mi resi conto che il terremoto aveva provocato seri danni. Mi fu detto che, di un altro paese, Romagnano, confinante con la provincia di Potenza, non ne era rimasto niente: a quel punto mi misi in macchina per andarci. Non fu facile perché trovai strade distrutte e ingorghi di mezzi di soccorritori e visitatori che andavano lì per constatare l’entità dei danni. All’alba raggiunsi altri paesini della provincia di Salerno, contigua alla nostra, ove ebbi conferma dell’entità di quanto accaduto. Allora, fattosi giorno, il mio pensiero fu quello di provare ad andare a Potenza, anche perché non avevo nozione precisa di cosa stesse succedendo. Sapevo che il terremoto aveva colpito il centro della città, dove tra l’altro c’era e c’è la mia casa. Mi spinsi nella città, vidi che via Pretoria, la strada principale del centro storico, non era praticabile per via delle macerie di alcune case crollate. Riuscii a raggiungere la mia casa e vidi che era ancora in piedi e che attorno anche le altre case avevano retto all’urto. Riuscii ad entrarvi, detti un rapido sguardo, vidi alcune cose, ma poi chiusi immediatamente e continuai il mio giro per altre strade disastrate. Devo dire che poche volte nella vita ho avuto uno shock così profondo nella constatazione della sofferenza umana a cui era difficile corrispondere. Non era sufficiente, infatti, manifestare il proprio dolore a quelle famiglie, chiuse in loro stesse a piangere i loro morti e a domandarsi quale sarebbe stato il loro futuro.
La guerra nei Balcani
La Jugoslavia, sorta all’indomani della seconda guerra mondiale, era costituita da sei repubbliche (Croazia, Serbia, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia, Montenegro, Slovenia) e dalle province autonome serbe del Kosovo e di Voivodina. Quest’area, a partire dal 1991, fu lo scenario di una lunga guerra che fino al 1995 oppose le principali etnie presenti sul territorio. Colombo racconta la mediazione tentata dall’Europa e il suo incontro con Milošević, il leader del nazionalismo serbo.
I protagonisti della proposta di soluzione per la Bosnia Erzegovina, dunque, mi pregarono di andare a Belgrado per provare a convincere tutte le autorità a cooperare perché il piano venisse accettato. Ebbi rapporti con tutti, con esponenti religiosi e con alcune delle autorità civili responsabili sia della Bosnia, sia della Serbia. Non potevo non adempiere a questo dovere anche nei confronti di Milošević, la personalità più difficile da incontrare anche a causa del giudizio che l’opinione pubblica italiana avrebbe potuto esprimere in merito a quell’incontro. Fu una giornata molto intensa: mi recai da lui nel pomeriggio e notai che aveva curato particolarmente la scenografia del luogo. Alla riunione aveva invitato anche molte persone e gli organi di stampa. Riassunsi il contenuto della proposta preparata dalla commissione come tentativo di soluzione e, come già mi aspettavo, ricevetti una risposta negativa. La cosa non mi meravigliò, perché era nei fatti che Milošević assumesse quella posizione; tuttavia, non si poteva non interpellarlo su una proposta scaturita dalla Conferenza di Londra sui Balcani. Avevano scelto me per la fiducia di cui godevo e per i buoni rapporti che avevo con Ćosić. Fui abbastanza chiaro nell’esporre i termini della proposta a Milošević che, tra l’altro, mi sentì parlare di cose che già conosceva: tuttavia, la mia era solo una «esposizione ufficiale». Milošević cercò di approfittare di quell’occasione perché, nell’isolamento in cui era, trovava particolarmente conveniente rappresentarsi come colui che aveva ricevuto il ministro degli Esteri italiano. Terminata la parte ufficiale del nostro incontro, lo pregai di mandar via le televisioni, di «spegnere le luci» e di riunirci in una seduta più riservata. Nel corso dell’incontro gli dissi che avrebbe dovuto consentirmi di manifestare, in quel momento, quale fosse il mio vero pensiero sulla situazione balcanica e su quello che i serbi stavano facendo. Dissi che se avessero continuato in quel modo, esercitando la cosiddetta «pulizia etnica» e mostrando debolezza nei confronti degli autori di crimini inaccettabili, in futuro non avrebbero più potuto rivendicare riconoscimento e rispetto sul piano internazionale. Egli accolse come poté il mio messaggio, dopodiché ci salutammo. La mia visita fu molto criticata in Italia, dove era ben noto quello che stava accadendo in Jugoslavia. Non si sapeva, invece, che io fossi stato incaricato dagli esperti della Conferenza di Londra affinché presentassi in prima istanza le proposte di quel gruppo. Al «no» di Milošević seguì un giudizio molto pesante su quello che stava accadendo e sulla politica che egli stava attuando in quel momento nei Balcani.
Cronologia
1920 (11 aprile) nasce a Potenza, quarto di sette figli, da Angelo e Rosa Tordela.
1935 fonda a Potenza, la prima associazione studentesca di Azione cattolica.
1937 è presidente di Azione cattolica della Diocesi di Potenza e componente del Consiglio nazionale della Gioventù italiana di Azione cattolica; consegue la maturità classica presso il Liceo «Quinto Orazio Flacco» di Potenza.
1941 consegue la laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Roma.
1944-1947 è segretario generale della Gioventù italiana di Azione cattolica.
1946 è eletto all’Assemblea costituente per la circoscrizione Potenza-Matera.
1948-1951 è sottosegretario al Ministero dell’Agricoltura e foreste (Governi V e VI De Gasperi).
1952 (giugno-dicembre) è sindaco della città di Potenza.
1953-1955 è sottosegretario al Ministero dei Lavori pubblici (Governi VIII De Gasperi, Pella, I Fanfani, Scelba).
1955-1958 è ministro dell’Agricoltura e foreste (Governi I Segni e Zoli, in cui è anche Alto commissario per l’alimentazione).
1958-1959 è ministro del Commercio con l’estero (Governo II Fanfani).
1959-1963 è ministro dell’Industria e commercio (Governi II Segni, Tambroni, III e IV Fanfani).
1963-1970 è ministro del Tesoro (Governi I Leone, I-II-III Moro, II Leone, con interim al Bilancio e programmazione economica, I-II-III Rumor).
1970-1972 è presidente del Consiglio dei ministri (1971-1972 è anche ministro ad interim di Grazia e giustizia).
1972 è ministro del Tesoro (Governo I Andreotti).
1972-1973 è ministro senza portafoglio con delega per i compiti politici particolari e di coordinamento, con speciale riguardo alla presidenza della delegazione italiana all’Onu (Governo II Andreotti).
1973-1974 è ministro delle Finanze (Governo IV Rumor).
1974-1976 è ministro del Tesoro (Governi V Rumor, IV-V Moro).
1976-1980 è parlamentare europeo (e presidente del Parlamento europeo dal 1977 al 1979).
1979 gli viene conferito il «Premio Carlo Magno».
1980-1983 è ministro degli Affari esteri (Governi II Cossiga, Forlani, I-II Spadolini, V Fanfani).
1987-1988 è ministro del Bilancio (Governo Goria).
1988-1989 è ministro delle Finanze (Governo De Mita).
1989-1992 è parlamentare europeo.
1992-1993 è ministro degli Affari esteri (Governo I Amato).
2003 è nominato senatore a vita.
2013 (24 giugno) muore a Roma.